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martedì 27 maggio 2008

I RACCONTI DI PEZ: Tutti al mare

Ore 20;30. Ale è bloccato nel traffico su via Appia. Con il week-end lungo di fine Aprile vanno tutti fuori Roma. Come pecore facciamo tutti le stesse cose. Tutti in partenza. E d’estate il sabato e la domenica tutti al mare. Ci si mette almeno un’ora a trovare il parcheggio sul lungomare. Un parcheggio comunque senza ombra anche in pieno agosto che già ti fa pensare a quanto soffrirai nel rincasare guidando un’auto bollente. È lì che quasi mi sento svenire e solitamente mi accascio sul sedile inerme sognando la montagna. Sulla spiaggia non c’è un metro quadro libero per stendere il proprio asciugamano. E si ritrova il caos cittadino con la gente che urla, i soliti cafoni, i bambini che giocano con la palla e ti riempiono di sabbia, il caldo, i soliti fissati egocentrici con la pelle già color biscotto bruciato da maggio, le insicure ragazze anoressiche che pensano di essere ciccione e vorrebbero essere invisibili come invisibili si sentono a livello psicologico ed emozionale. Soffri steso al sole? Non importa. Devi assolutamente essere abbronzato. Perché se in estate non sei nero non sei “IN” ma “OUT”. E non importa se il buco dell’ozono fa sì che i raggi del sole non sono più filtrati. Non importa se con una bella abbronzatura rischi il cancro della pelle. Tanto finché non accade non è vero. Se accade “povero me come sono sfortunato!”. Devi essere perfetto fisicamente, soprattutto in spiaggia dove non ci sono trucchi. E allora in primavera scattano le diete forzate, lo sport forzato dell’ultimo minuto. Come se il piacere agli altri fosse solo un fatto visivo. La chimica ve la siete dimenticata? Ma oggi il mondo va così. Va di moda il ritocchino fatto dal chirurgo o al centro estetico. Poi se non sappiamo una parola d’inglese chissene frega. Sei accaldato e vuoi fare il bagno? Ti aspetta un’acqua torbida, inquinata, schiumosa, piena di rifiuti. A poca distanza puoi vedere gli scarichi delle fogne di Roma. Ma le famiglie ci portano i figli a giocare vicino lo scarico. Assurdo. È tutto così superficiale, falso, provinciale. È tutto sempre uguale a se stesso. Demoralizzante. Beata ignoranza. L’unico lato piacevole sarebbe gustarsi una birra fresca all’ombra seduti al tavolino di un chiosco ed osservare gli altri. Ma il prezzo da pagare è per me troppo alto. E figuriamoci per Ale che manca di pazienza e tolleranza. No. noi non ci andiamo più al mare nel week-end. Soprattutto al mare vicino la città. E se ci andiamo si dorme lì per evitare traffico e parcheggio selvaggio. Ma ancora più importante: non passiamo la giornata a cuocere la nostra pelle. E andiamo dove fare il bagno non da la sensazione di tuffarsi in una melma. A me piace sguazzare nell’acqua. A mio parere andare in spiaggia e non poter fare il bagno in mare è come camminare a piedi nudi sui vetri rotti. Sotto il sole soffro. Smanio. Sento caldo. Mi si abbassa la pressione. Mi annoio. Non riesco a leggere per il caldo. Resisto solo all’ombra, in acqua o se passeggio. La morale della favola è che non mi abbronzo mai.
Mi ricordo ai tempi dell’asilo e delle prime classi alle elementari.
- la bambina deve fare più mare possibile. Lo iodio fa bene. E poi deve camminare sulla sabbia a piedi nudi. -
Ma non eravamo ricchi. Le vacanze vere duravano poco. E allora dalla fine della scuola si cominciava con un tram tram per me devastante. Dalla sera prima nonna preparava il pranzo del giorno dopo. La mattina molto presto la sveglia e la colazione. E già mi chiedevo perché dovessimo svegliarci così presto in vacanza. Io che adoravo poltrire a letto.
- metti il costume sotto il vestito così non dobbiamo prendere la cabina -
- no ti prego, prendiamo la cabina -
- no oggi No. eddai quante storie. Non sei contenta? Andiamo al mare -
Contenta proprio non ero perché già immaginavo il tour de force che m’aspettava.
La cabina poteva essere un rifugio all’ombra. Perlomeno per pranzo o in fase digestiva. Perché noi non potevamo permetterci di pranzare alla tavola calda dello stabilimento. E forse non potevamo permetterci nemmeno la cabina. Chissà.
Mia nonna non guidava l’auto. Partivamo presto, piene di bagagli. Avevamo gli asciugamani, forse il cambio di vestiti, creme, bottiglie d’acqua, la pesante borsa-frigo, qualche gioco. Il tragitto era infinito. A piedi fino alla metropolitana. La linea A fino alla stazione Termini poi il cambio metro. La linea B fino alla stazione della Magliana. Poi il trenino per Ostia. Poi per non aspettare all’infinito il bus già stracolmo di gente ci avviavamo a piedi sotto il sole cocente fino allo stabilimento balneare delle Poste. Prima tortura. Prima fatica.
- prendiamo l’ombrellone nonna? –
Ero già esausta. Ed era solo l’inizio.
- No. a che ci serve l’ombrellone? Dobbiamo prendere il sole -
- ma io voglio stare all’ombra -
- e che pappamolle sei? Dai che staremo benissimo al sole -
niente ombrellone. Niente lettino. Niente tavola calda. Era festa se avevamo la cabina privata. Extra solo il ghiacciolo. Il “Calippo” o il “Fiordifragola”. Sistemavamo l’asciugamano sulla sabbia. Non so perché mai vicino al bagno-asciuga dove senti un po’ di frescura dal mare. No. sarebbe stato troppo piacevole. E forse quello spazio era esclusivo degli ombrelloni. Noi eravamo dove la sabbia ustiona. Dove l’unico ristoro era immergersi nella piscinetta per bimbi. Che in realtà sembrava più una fontana. E lì giocavo. Mi divertivo. Ma avvertivo costante un senso di giramento di testa. Troppo caldo, troppo sole. Mi bruciavo spesso la schiena, le spalle. Ho ancora i segni. Chiazze marroni sparse da scottatura. Ora di pranzo.
- Cambiati il costume -
- qui davanti a tutti? -
- ti copro io con l’asciugamano. Non ti guarda nessuno. E che sei timida? -
Si ero timida. Molto.
- ma mi vergogno -
- e su, di che ti vergogni poi!?! Come se tutti non aspettano altro che guardare te! -
non potevo neanche pensare che qualcuno mi notasse anche per un solo istante. Che tortura. La seconda tortura della giornata, seconda fatica. Nonna mi costrinse ad asciugarmi sdraiata al sole senza costume. Avrò avuto forse 7 anni. Non so. Ero pudica. Ero timida. Ero alta per la mia età. Troppo alta. Stare lì sdraiata, nuda, era proprio una tortura psicologica. Era troppo per la mia autostima. Ma mia nonna aveva il vecchio concetto che i bambini non sono piccoli adulti. I bambini non vanno ascoltati e capiti. Ero umiliata.
Mi vergognavo anche del nostro porta-pranzo. Da bimba ero principessina. Quel nostro fare da classe operaia mi spezzava l’anima. Era un istinto innato. Nonna tirava fuori la tovaglietta, i piatti, le posate, i bicchieri, i tovaglioli, le pietanze. E quell’odore poi, concentrato, tipico del cibo cotto e chiuso ermeticamente. Aprivi la borsa e ti inondava le narici con prepotenza. Nauseante. Peperoni ripieni di carne o frittata di patate. Fettine fritte panate o polpette fritte. Oppure pomodori rossi gonfi di riso con contorno di patate al forno un po’ troppo umide e sfatte dal caldo con un troppo deciso e fastidioso sapore di cipolla.
- Mangia a nonna -
Tutto buonissimo ma poi ti era vietato fare il bagno per tutto il pomeriggio. Caspita. Non potevamo mangiare dei modici e leggeri panini? Una fresca insalata? Una macedonia di frutta? Come era faticosa la digestione sotto il sole.
- posso fare il bagno? -
- ancora no -
- ora? -
- No. potrai alle 16;30. non prima. -
- che ore sono? -
- è presto –
- ma fa caldo... -
Gli altri bambini erano tutti in acqua già da ore. Ma loro probabilmente non avevano la borsa porta-pranzo. Altra tortura. Altra fatica.
- posso andare all’ombra? -
- no sennò col fresco non digerisci. -
Mia nonna a differenza mia era come le lucertole. Lei poteva stare sdraiata al sole per ore. Senza un minimo di sforzo, di sofferenza. Mi ricordo che sudava, sudava, si riempiva di crema e sudava. Ma lei stava lì. Verso le 17 credo si doveva tornare. Io ero già distrutta. Consumata. Il sale addosso, la pressione bassa, la digestione lenta, i bagagli pesanti che sembravano macigni, il sonno. Mia nonna No. fresca come una rosa anche se accaldata.
- la doccia si fa a casa -
- nonna non ce la faccio -
- e su. Sei giovane. Dai non fare i capricci. -
- mi gira la testa -
- che vuoi che sia un po’ di sole, di mare. Sbrigati che si fa tardi. -
Ricomincia il tram tram del ritorno. Con ancora i capelli umidi se non bagnati. I brividi di freddo per l’effetto post-sole. Ma si doveva pur tornare. E con i mezzi pubblici. Quarta tortura. Quarta fatica. A casa mi sentivo così sfatta che neanche volevo lavarmi. La pelle bruciacchiata pizzicava. Anche al solo contatto delle lenzuola. Sentivo addosso l’effetto “febbre” e crollavo dal sonno con la orribile consapevolezza che la mattina dopo tutto sarebbe ricominciato esattamente come il giorno precedente.
Le torture dei martiri, le fatiche di Ercole.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Un bel racconto, alcune situazioni le ho vissute più o meno allo stesso modo.
Incredibile che "dolci" torture che abbiamo sopportato... Ma è stato bello così.
Davide